Recensione: Jack White pasticcia con l’identità e la storia del rock nell’accattivante e strano ‘Boarding House Reach’, Sorprendentemente rilevante ‘Boarding House Reach’

jack white
Theon Delgado

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Non c’è dubbio che il rock’n’roll – musica basata su celebrazioni egocentriche della libertà personale – sembra un po’ sospetto in questi giorni nelle mani di ragazzi bianchi cisgender, per quanto “svegli” possano essere. E francamente questo è giusto, data la vergognosa storia della musica che compensa ingiustamente gli artisti neri e una cultura dello stupro ancora da scandagliare completamente nell’era post-Weinstein #MeToo. Quindi come si fa a rappresentare nel 2018 sia come eroe rock che come alleato interculturale? David Byrne, uno scozzese-americano dalla pelle chiara che non ha mai messo l’attivismo esplicito al centro del suo lavoro, ha offerto alcuni solidi esempi ultimamente: girare il mondo con una band color arcobaleno, coprire l’inno #BlackLivesMatter di Janelle Monáe “Hell You Talmbout”, prendere a cuore le critiche benintenzionate sui social media e condurre un progetto di impegno civico contro la disperazione. Ma è una domanda a cui ogni artista, alla fine, deve rispondere da solo.

Jack White sembra lottare con la domanda su Boarding House Reach – un set disordinato, tentacolare, stralunato, ululante che suona spiritualmente affamato, collettivamente guidato e, istruttivamente, un po’ perso. È il suo disco più strano, ma, come al solito, mostra la sua continua devozione alle arti oscure del rock: le intricate radici culturali, le tradizioni di registrazione migliorate dagli “errori”, la furia moralista e la megalomania in modo accattivante.

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L’immagine di copertina, una sorta di ritratto dell’artista come giovane persona trans, segnala la nozione di identità artistica come territorio fluido. È un ovvio cenno alla storia del rock (insieme all’ottica, un angolo su cui White non dorme mai), al Transformer di Lou Reed e a Bowie e alle New York Dolls, e alla natura non binaria della musica, proveniente da un ragazzo che ha fatto delle collaborazioni di genere misto una regola in quasi tutto il suo lavoro. Alla luce delle recenti dichiarazioni (“Non mi sento né maschio né femmina”, ha detto White alla rivista Uncut), potrebbe anche suggerire una solidarietà spirituale con la comunità trans, anche se si potrebbe plausibilmente accusarlo di sfruttamento della stessa.

Boarding House Reach sembra riflettere anche sulla fluidità razziale del rock. In modo significativo, guarda meno alla città adottiva di Jack White, Nashville, che alla sua città natale, Detroit, il gigante industriale e la calamita della Grande Migrazione che ha formato Aretha Franklin, George Clinton e Juan Atkins, insieme agli Stooges, gli MC5 e Lester Bangs. Per non parlare dei rapper dal viso pallido che hanno fatto dell’impegno con la cultura nera un’industria a volte problematica, compreso Eminem (la cui alleanza include il suo “freestyle” virale pro-Colin Kaepernick e pro-militari ai BET Hip-Hop Awards dell’anno scorso) e Kid Rock (la cui recente esca liberale include la vendita di magliette “GOD GUNS & TRUMP” sul suo sito). White ha detto di avere in mente gli eroi della Motor City Funkadelic su Boarding House Reach, così come le jam di Miles Davis degli anni settanta, e questo è evidente nel suono. L’LP si allontana anche dal funk acido di stampo hip-hop che White ha forgiato su Lazaretto del 2014 (la title track, il singolo strumentale “High Ball Stepper”), con sprazzi di Paul’s Boutique e dell’era dorata dei Bomb Squad.

Come accade nella maggior parte dei dischi “rock” di rilievo ultimamente, l’elettronica ha un ruolo importante, ma in modi sorprendenti. Il trittico centrale di “Hypermisophoniac”, “Ice Station Zebra” e “Over and Over and Over” è una tempesta di groove a tre con lo stato dell’arte dell’arte digitale Critter & Guitari, squilli di synth, blast beats heavy metal, escursioni di chitarra malate, flussi rap vecchia scuola e asides di piano jazz. I rap colpiscono per un ragazzo il cui disinteresse per l’hip-hop è documentato, anche se forse esagerato nella percezione del pubblico, specialmente per un ragazzo che collaborava con i rapper anche prima del suo abortito team-up con Jay-Z. Per lo più White suona come uno scrappy, un rime da battaglia astratto in stile anni ’80 che probabilmente non ha vinto molte battaglie. Altrove, le deviazioni sperimentali sono un vicolo cieco: “Everything You’ve Ever Learned” sembra una sciocchezza senza meta con giocattoli digitali appena scartati.

Ma al suo meglio, lo spirito del freaky free-play è eccitante e
rinnovante, un degno fine a se stesso, specialmente dato il calibro dei musicisti
(i batteristi MVP Carla Azar e Louis Cato, i multi-strumentisti DJ Harrison e
Neal Evans). Come quasi tutto il lavoro di White, riesce a sentirsi fresco,
originale, e ancora profondamente radicato nella storia. Su “Ice Station Zebra”,
nome del film di spionaggio del 1968 con un idolo bianco finocchio (Rock Hudson)
e un eroe nero del football (Jim Brown), White mette in rima “yo” e “Caravaggio”
per sermoneggiare su come avvengono l’influenza creativa e lo scambio musicale. “Tutti
creano è un membro della famiglia/Passando geni e idee in armonia/I giocatori e i cinici potrebbero pensare che sia strano/ Ma se riavvolgi il nastro siamo tutti
copiando Dio”, scorre. Forse a proprio vantaggio, e forse esplicitamente in contrasto con il suo recente dis di DJ Khaled per aver copiato “Maria Maria” di Santana su “Wild
Thoughts”. Ma la coerenza filosofica è una cosa, l’arte è un’altra, e
all’interno del circuito chiuso di una canzone, White fa un caso per l’unità cosmica come
logico e fedele alla tradizione groovy di Detroit siamo tutti-in-questo-messo-insieme
come qualsiasi cosa su Cosmic Slop dei Funkadelic. Potere a lui.

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